sabato 24 aprile 2010

Noi non siamo razzisti, siamo merde

Parliamo di Adro (BS) dove 20 famiglie in difficoltà economiche si sono trovate nell’impossibilità di pagare il servizio di mensa scolastica in una scuola elementare. La scuola, con una risoluzione che non esito a definire pedagogicamente corretta, ha disposto il taglio dei viveri ai bambini. I piatti vuoti sono il viatico di un messaggio importante, che si enuclea (boia ladra , che parolone!) nel rispetto delle regole e della disciplina, perché non siamo mica nel paese di Bengodi, qui. Una forma di educazione al rigore, di cui un giorno questi pargoli, quasi tutti extracomunitari, ci saranno grati, se non moriranno d’Italia.
E se muoiono vuol dire che non erano forti abbastanza, e quindi non ci servono.

Storia edificante, se non fosse che un ignoto imprenditore si è intromesso effettuando una donazione di 10.000 euro a favore di queste famiglie di furbacchioni, che invece di pagare la mensa come tutti gli altri, si appellano al welfare, come se questa non fosse l’Italia, ma un paese Europeo.
“Non è giusto” reclamano le madri di Adro, che la mensa, loro, la pagano, mica balle. Da qui a pretendere che il benefattore scucia il malloppo a tutti o nessuno, il passo è breve. E infatti loro lo fanno: un saltino, un "balzello" verso lo sciopero della mensa. Perché agli extracomunitari sì e a noi no? Se fai un regalo a loro, che non sono nemmeno Italiani, lo devi fare anche a noi. Lo esigiamo!

Un altro muro è crollato, ma francamente non mi sorprende più di tanto, basta guardarsi intorno. Quello che mi stupisce è che il dibattito si concentri tutto sulle mamme e nessuno pensi ai bambini. No, che avete capito, non i bambini lasciati a digiuno, chi se ne frega di quegli extracomunitari mignon mangiapane a tradimento?
Io pensavo ai figli della madri che deprecano la generosità, che accusano i poveri di essere furbi, che dicono prima noi e andate a casa vostra.
La mia mente corre a questi piccoli italiani, figli di italiche madri dal grande cuore verminoso. Che, è vero, non sono affatto razziste, come strepitano scandalizzate ai microfoni di Annozero.
Sono peggio.

Pensiamo ai loro bambini. In questo preciso momento, stanno ricevendo a piene mani una solida, ringhiante, omicida educazione familiare che un giorno metteranno in pratica e perpetueranno.
Stanno violentando i loro cuori e noi stiamo a guardare.

mercoledì 21 aprile 2010

Colleghi ravvicinati del terzo tipo

Quando chiude un’azienda e tutti a casa i sensi si accendono come bengala. Anni di routine lavorativa li avevano offuscati e di colpo, ehi, cosa vedo, i miei colleghi. Quasi ex. Ora li vedo meglio. Ora che stiamo per congedarci. Ma come è possibile?
Forse lo so.

Siamo a un mostra, un vernissage. Quadri dappertutto, non so se rendo l’idea. Un sacco di gente si aggira fra le opere con aria intelligente e i muscoli abbastanza tonici da reggere un bicchiere di Spritz. Che noia tutti ‘sti quadri, non ne posso più, ma chi l’ha detto che sono capolavori? A me sembrano le solite croste!
E questo che roba è? Sulla parete l’impronta di un quadro. Qualcuno l’ha portato via. Poteva essere il quadro più bello del mondo. Voglio vederlo! Dove l’avete messo? Lo so, lo so, avevo detto che l’arte moderna mi ha annoiato, ma… dov’è finito quel quadro? Voglio vederlo.
Mi manca già.
Mi sento anche un po’ solo.

Colleghi: per anni insieme, sempre operativi, sempre sul pezzo. E ora che il pezzo si è rotto, scendiamo e, da colleghi, torniamo persone. La metamorfosi è quasi istantanea e lascia senza fiato. In questi ultimi giorni insieme mi pare che ci fissiamo come alieni, proprio perché ci guardiamo come esseri umani.
Prima regola per rinascere: schiattare.

domenica 11 aprile 2010

Sorridi, questa NON è una candid camera

Sempre lei, ogni mattina, da non so più quanto tempo. Tutti i giorni mi ha accolto alla fermata di piazza Castello con un sorriso radioso, sincero e gratuito, come il giornale che consegna. Io, che ho sempre la testa altrove, fra ieri e domani con un accenno di oggi, a quel punto mi ricordo di lei, mi dico: ah, già, eccola! Ed è una bella notizia, perché la ragazza mi allunga il giornale con un sincero moto di generosità, come se mi porgesse un regalo. “Metro, buona giornata!” In effetti è così, è un proprio un regalo, ma non riferisco a quelle pagine di pubblicità e notizie a margine. Niente affatto.

Probabilmente la pagano quattro soldi e di sicuro non le danno alcun extra per sorridermi di cuore. Ma lei lo fa sempre e, diavolo, non vorrei sembrare new age, ma è un sorriso cristallino, pura gentilezza d’animo. Il regalo è tutto lì e l’ho avuto tutti i giorni, come l’hanno ricevuto moltissimi altri distratti figuranti diretti al lavoro. Perfino i conducenti dei bus sembrano apprezzarla, lo vedo da come la salutano. Così ogni giorno, non importa se la luna è dritta o storta, io mi sono ritrovato a ricambiare quel sorriso luminoso con una sincerità fanciullesca, che nel tempo è andata crescendo sempre più. E ogni giorno ho ripetuto il mio mantra: “Ciao, grazie”.

Che presa alla lettera è poca cosa, come frase, ma vediamo un po’. Con “Ciao” io intendo: “Ehi, che bello, sei qui anche stamattina!” Mentre con “Grazie” le dico: “Questo sorriso che mi regali è così limpido, così vero. Mi fa sentire bene, mi fa capire che siamo uguali, io che vado a fare il pubblicitario e tu e che distribuisci giornali. Le distinzioni, il distacco, sono un gioco di fantasia. Infatti basta un sorriso ad abbatterle.”

“Ciao, grazie” E ovviamente sorrido di riflesso, mettendoci dentro tutti i sottintesi che riesco. Un rapido scambio di sguardi. Sono certo che ha capito. Ormai è come un gioco di mutuo riconoscimento. Si ammicca un po’ e si tira dritto. Chiariamo subito: nessun risvolto romantico o erotico in tutto questo. Solo due persone alla pari.

Piccoli gesti, squarci di verità che contribuiscono a rendere le giornate migliori, compiuti da eroi misconosciuti, ai quali difficilmente prestiamo attenzione. Mi chiedo, se ci fossi io, al posto di quella ragazza a compiere un lavoro che non abbonda (credo) di soddisfazioni, sarei capace di sorridere in quel modo? E, domanda ancora più importante, se tutti prestassimo attenzione più spesso a queste persone, a riconoscerne il valore, anziché inseguire esempi posticci forniti da modelli di plastica? Io una così la promuoverei a direttrice di Metro!

Voi conoscete persone come lei? Apparenti comparse che forse incarnano storie più interessanti di quelle portate avanti dai protagonisti, o aspiranti tali, di questo infinito, complesso reality senza telecamere?
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