martedì 2 novembre 2010

Qualcosa è cambiato.

400 persone provenienti da tutta Italia riunite in una sala con la ferma intenzione di migliorare la qualità della propria vita. 400 abbracci da dare e ricevere, 400 sorrisi calorosi, 400 amici disposti a guardarti negli occhi con assoluta sincerità, 400 persone che si commuovono e ridono a crepapelle pensando alla propria vita, tutte insieme. Nessuna vergogna di essere vulnerabili, tutt’al più l’orgoglio di prenderne atto. Ringrazio la mia vita per questa esperienza.
Come è successo?
Mi è capitato quello che a molti capita. A un certo punto è arrivato il momento di fare i conti con i miei limiti. Un momento rinviato per tanto tempo, finché la vita ha presentato il conto, volente o no. Ed è stato pesante. Rocky diceva: “Non importa quante volte cadi, ma quante volte ti rialzi” Il maggiordomo di Batman domandava: “Perché cadiamo? Per imparare a rialzarci!”
Con questi esempi davanti agli occhi, uno come fa non sentirsi un figo, perfino nella sfiga? Così, anche nel momento dello sconforto, una vocina dentro di me diceva: ehi, è successo anche a Batman! Per uno che si è laureato con una tesi in sociologia sui supereroi, credetemi, fa la differenza.
Comunque.
Avevo mancato il bersaglio da diversi punti di vista (lavoro, amore, arte e per certi versi, amicizia,) e ho iniziato a chiedermi: come raddrizzo la mia vita? Il tempo sta passando, non sono più giovanissimo e, francamente, ho il morale a terra! La crisi dei quarant’anni non può aspettare che li compia davvero?
Per un po’ ho pensato di fuggire all’estero. Dico “fuggire” perché in effetti il piano di trasferimento era piuttosto fumoso, a ripensarci col senno di poi. Sono andato a Londra e ho annusato l’aria. Sapeva di burro bruciato e patatine di McDonalds. Londra è fantastica, ma ci devi andare con lo spirito giusto e ho capito che il mio spirito era ferito. Così non andava.
A mancarmi non erano le idee, di quelle anche troppe. Latitava invece la motivazione a inseguire con energia un’idea purchessia, a impegnarmi con passione nella mia vita.
Eppure ricordavo un’epoca in cui ero determinato, sicuro di me, pieno di aspettative e sempre pronto a mettermi in gioco.
Sapete di che parlo?
Poiché chi cerca trova, ho iniziato a trovarmi davanti il faccione sorridente di un tale, Anthony Robbins, che conoscevo di nome ma non di fatto. Una montagna d’uomo con denti bianchissimi e un entusiasmo per la vita francamente irritante. Nei video parlava del perché le persone fanno quello che fanno. Del fatto che non esistono persone pigre (come io mi sentivo), ma persone che non hanno ancora trovato il loro obiettivo personale e che hanno abitudini depotenzianti, modelli di pensiero che ne sabotano la riuscita e molto altro ancora…
Americanate, ok? L’avevo sempre pensato. Di più, lo avevo sempre saputo. Sono mica un fesso, io.
Solo che le parole di Robbins non facevano una grinza, maledetto!
Solo che quel gigante da un milione di dollari aveva una mente affilata come un rasoio e diceva cose talmente logiche e incontrovertibili che non riuscivo a contraddirlo nemmeno con la mia STRAORDINARIA intelligenza. Solo che non parlava di sorridere alla vita con atteggiamento new age, parlava di prenderla per le palle, la vita… e assumersi la responsabilità di portarla esattamente dove vogliamo! Sicuri di riuscirci? No! Sicuri che ne varrà la pena? Sempre e comunque! Ma come? Be’, lui aveva un paio di consigli…
Ragazzi, ero così stanco di sentirmi avvilito senza ragione apparente, di vedere tante persone infelici intorno a me o anche semplicemente demotivate!
Il mio cervello aveva cominciato a selezionare le informazioni che lo interessavano. Notavo sempre più persone intelligenti, istruite, benestanti e con un enorme potenziale di felicità, scontente della propria vita o chiusi entro limiti soffocanti che si erano costruite da soli. Alcune di queste persone si confidavano con me, forse perché notavano che soffrivo della stessa “malattia” o forse perché si accorgevano che ero partecipe delle loro sorti.
I discorsi avevano un elemento in comune, riassumibile così: “Non so cosa voglio dalla vita, a volte mi sento così male e non so perché!”
Quel fetente di Robbins aveva diverse risposte. Ho iniziato a interessarmi alle sue teorie e alla scuola di pensiero da cui venivano, di derivazione psicologica, e ho cominciato a sentire qualcosa che si agitava dentro di me. Perché alcune persone hanno tutte le fortune e sono infelici? Perché gente come Elvis, Michael Jackson o Maradona, per fare esempi eclatanti, sono così ricchi di possibilità e rovinano se stessi? Perché altri hanno una vita travagliata, vedono e soffrono le peggiori esperienze e ciononostante sono felici? Alcuni diventano esempi per tutta l’umanità! Penso a Nelson Mandela, un uomo che ha patito 27 anni di prigionia, e poi ha cercato la riconciliazione – e non la vendetta! Penso a chi ha poco o niente ed è più felice di un riccone cocainomane e forte oltre ogni misura nonostante lavori come un mulo e guadagni assai poco.
Stavo girando come una trottola. Leggevo libri su libri e sentivo di avere trovato qualcosa di valido su cui riflettere.
Solo che a un certo punto dovevo mettere alla prova tutte quelle teorie su di me, altrimenti a che servivano? Poiché chi cerca trova, una sera di giugno mi sono ritrovato in mezzo a centinaia di persone ad ascoltare un formatore che anni fa aveva studiato e lavorato direttamente con Robbins, uno che viene chiamato “l’Anthony Robbins italiano”.
Inutile specificare che mi ha irritato, vero? È così che funziona il mio cervello, davanti alle novità e soprattutto alle persone felici, si mette sull’attenti. A pensarci bene, è molto più facile sentirsi vicini a chi soffre che a chi irradia gioia… che ci dà anche un po’ sulle palle. Perché cazzo è così felice?!
E anche questo formatore: sorriso da un milione di dollari, vitalità a mille, rara capacità di calamitare l’audience. Insomma un uomo che irradiava felicità e sicurezza in se stesso e comunicava alle persone qualcosa in cui credeva di brutto. E anche lui, aveva la sfrontatezza di dire un sacco di cose sensate. Ma come si permetteva? Non era uno psicologo di chiara fama, non era un accademico venerato, non era nemmeno americano!
Roberto Re: ma come si permetteva?
Ok, avevo preso appuntamento con una persona del suo staff, un coach (cioè un professionista che aiuta le persone a raggiungere i risultati desiderati e allinearsi un po’ meglio con i propri veri obiettivi, che prima di tutto vanno distinti e capiti, mentre la norma è: non so cosa voglio!)
Convintissimo di sentire cose che sapevo già, ho incontrato questa donna incredibilmente radiosa che mi guardava negli occhi con sincero interesse e mi ascoltava DAVVERO. Ora, io sono un tipino sensibile e sul chi vive, ma più la conversazione procedeva, più questa coach mi era simpatica.
La sua è una professione, ok? Non mi ha mai detto ti aiuterò gratis. Voglio dire che non è una volontaria del Sacro Cuore, ecco. Però ha detto: “Sono convinta di poterti aiutare, se vorrai metterti in gioco davvero. Io farò il 30%, tu il 70.” E per dimostrare che aveva qualche argomento da condividere, mi ha detto due o tre frasette che mi hanno fatto affluire tutto il sangue al cervello in un secondo e poi a cascata fino al cuore.
È cominciata così.
Una sera a settimana mi sono unito a un centinaio di persone che ascoltavano, prendevano appunti, si esercitavano, si aiutavano a vicenda. All’inizio, ad essere sincero, era tutto parecchio strano: un sacco di gente sorridente, persone che si salutavano abbracciandosi… e io? Diffidenza a mille. Sapevo che mi sarei sentito un pesce fuor d’acqua, all’inizio. E cercavo motivi per esserlo. E poiché chi cerca trova…
Il mio cervello diceva: ehi, dove siamo? Ti sei ammattito? Questa roba non fa per noi!
E io mi sforzavo di rispondere: ti ho sempre dato retta, ho sempre evitato situazioni che mi mettevano a disagio… ma le cose non vanno come avevo sperato! Proviamo qualcosa di diverso, ora!
Lui rispondeva: tutte scemenze.
Questo è successo due, tre, quattro volte.
Il mio cervello non voleva cambiare abitudini, ma io gli ho proposto: prendine delle altre, prova queste, che vuoi che succeda! Alla fine ho iniziato a sentirmi a mio agio, a prenderci gusto, e ho messo alla prova le teorie che mi venivano trasferite. Nella vita privata, nel lavoro, con me stesso. Il cervello si era arreso, per fortuna. Le abitudini possono essere nostre alleate o le nostre peggiori nemiche, dipende da quali sono. Di sicuro, è meglio non rinchiudersi in quelle che ci proteggono a breve termine e ci danneggiano nel lungo termine. Una buona abitudine è quella di considerare i rischi una possibilità di crescita. Bene, ho deciso di prendere questa abitudine.
E i risultati hanno cominciato ad arrivare. Uno dietro l’altro, a una velocità che non credevo possibile.
Salto temporale: sono circondato da più di 400 persone radunate in una sala in un albergo romano. Davanti a noi, sul palcoscenico, Roberto Re parla di emozioni e di come gestirle meglio, ci mette alla prova con esempi pratici e coinvolge in prima persona.
Qualcosa è cambiato, ascolto e ora capisco molto meglio.
Vorrei parlare di quei tre giorni e credo proprio che lo farò, ma per adesso può bastare. Prossimamente, presto…
Qualcosa è cambiato. Io continuo a lavorarci, con un sacco di nuovi amici. Con la consapevolezza che è possibile. Si può essere più felici, si può cambiare, si può aspirare al meglio.
Si può ritrovare il coraggio.

domenica 3 ottobre 2010

Il tempo corre e occorre.

Qualche volta ci vuole più di qualche giorno. Qualche volta ti devi immergere in te stesso e giurare che riemergerai solo quando avrai trovato ciò che stai cercando. Poco importa che tu non sappia di che si tratta, quel che conta è la promessa, che manterrai a tutti i costi.
L'alternativa? Tradire tutto ciò che di buono sai di avere.
L'inverno è rigido, oscuro e dura più di quanto vorresti, ma è anche il momento in cui ci si stringe a chi si ama, si tirano fuori i maglioni che ci proteggono meglio e si cerca dentro di sé il calore che manca.
E quando inizi a trovarlo, perché lo hai cercato bene e puoi essere fiero di te... metti la punta del naso fuori dalla tana e inizi a sentire il profumo dell'erba che cresce. Di nuovo.
Che profumo.

mercoledì 16 giugno 2010

Sole e casine

Nel centro storico l’aria è leggera e brilla un sole da primi di agosto, anche se giugno è appena cominciato. Supero chiese medievali, piccole piazze, la facciata barocca di un teatro e la biblioteca Malatestiana, percorro bassi portici su cui si aprono porticine di legno brunito. Alcune sono spalancate e oltre la soglia vedo soffitti affrescati e bambini con i calzoncini corti che giocano su pavimenti di marmo a scacchi.
Cesena è una città a misura di bambino ricco.
Dietro un’alta cancellata verdeggia un giardino pubblico costellato di busti di artisti e patrioti. Al centro si innalza un gazebo in cui immagino una banda suonare in un una sera d’estate, gli strumenti che scintillano nell’aria profumata d’erba. Torno al presente. Sulle panchine siedono alcune donne in età, con graziosi cappellini. Guardano davanti a sé o chiacchierano. Più in là, sdraiati sul prato, un paio di magrebini se la raccontano e ridono. Nessuno li guarda male, nessuno bada a loro, in apparenza.
Quando ripercorro la via centrale diretto al ponte Savio, vedo la scritta sulla vetrina: “Casine”. È un giorno di assoluta libertà, così assecondo il ghiribizzo e mi avvicino. Sull’uscio un tizio con la barba folta e un camice picchiettato di macchie di tutti i colori non fa nessuna fatica a sorridermi a trentadue denti. Deve essere un giorno di libertà anche per lui.
“E così vendete casine,” faccio. Sono un tipo disinvolto.
“Le facciamo e le vendiamo,” fa lui. Si diverte un mondo. In vetrina, appesa a un filo d’acciaio, se ne sta in bella mostra, appunto, una casina. È un oggetto simpatico e sbilenco, che sfida il buon senso con le sue linee storte e i colori squillanti, esagerati. Un casetta di legno con il tetto inclinato, le finestre rotondeggianti e la porta asimettrica. Bellissima.
“Vuoi vedere?” dice il barbuto.
Come ho detto, è un giorno di vita e libertà. Sulla soglia adesso è arrivata una ragazza, che regge in mano una tavoletta di legno tutta colorata. Un milione di colori, come sul camice del barbuto. Mi guarda in modo insistente e dice: “L’ho fatta io.”
Entro e incontro i suoi amici, una dozzina circa. Sono un gruppo di ragazzi e ragazze dallo sguardo remoto. I loro occhi convergono all’unisono su di me. Sembrano poco abituati a ricevere visite, infatti rispondono a stento al mio saluto, per lo più in silenzio. Uno di loro porta una specie di gabbia d’acciaio intorno alla testa, un altro siede su una sedia rotelle, due di loro stanno navigando su internet. Nella stanza adiacente un gruppo di ragazze siede intorno a un tavolo. Al centro del tavolo ci sono barattoli di colore. Ogni ragazza maneggia un pennellino e un pezzo di “casina”. Le opere finite si asciugano qua e là per le stanze, sopra scaffali, bauli, su una credenza.
Ma che bel modo di far passare loro il tempo, queste casine, dico fra me e me. Però a guardarle bene, sono pezzi unici, una diversa dall’altra, una più bella dell’altra. È impossibile sceglierne una. Ma qualcuno lo fa.
“Con Internet le vendiamo in tutta Italia,” dice il barbuto chiaramente soddisfatto. “E anche all’estero.” Indica uno dei ragazzi davanti ai computer e fa: “Lui è il nostro ufficio stampa. È anche un bravissimo cantante, un batterista e un ballerino.”
“Anche io suonavo la batteria una volta.”
Questo lo rallegra moltissimo. “Un musicista! I musicisti ci sono simpatici, vero ragazzi?”
Per tutta risposta la tipa di prima mi porge la sua tavoletta e ribadisce: “Questa l’ho fatta io.” Gli altri reagiscono meno del previsto. I loro occhi dicono: ma questo che vuole. Sono tentato di far presente che sono anche un ex addetto stampa. Cantante e ballerino, mai, però. Abbiamo molto in comune, io e loro. Anche a me piacciono le casine. Per la verità non riesco a smettere di pensare al loro successo internazionale. Io sono a Cesena in cerca di lavoro, mentre questi ragazzi ne hanno uno bellissimo. Vorrei sedermi lì e creare pezzi unici. Sara mi chiede come mi chiamo. Ci metto un po’ a tornare sulla terra e rispondere e chiedere il suo nome. Sara è, come si dice, una ragazza down. Dipinge casine bellissime, lo so perché l’ho visto con i miei occhi. Anche le altre ragazze, ma lei è stata l’unica che ha voluto conoscermi almeno un po’, la meno timida. Ha una stretta di mano fiduciosa, sicura. Le sue colleghe hanno un occhio per me e uno per il loro lavoro. Le casine hanno la priorità ma si può fare uno strappo alla regola.
Prima di uscire stringo la mano anche al barbuto e gli dico quanto ammiro il suo lavoro e tutto quello che succede lì dentro. In un giorno di libertà puoi dire quello che vuoi, essere puro, sorridere come e quando viene. E di solito è così facile che difficile è smettere.
È ora di andare. Ringrazio tutti, li saluto allegramente, guardo le casine con un senso di perdita.
“Se ripassi di qua, torna a trovarci. Vero, ragazzi?”
“Questa l’ho fatta io.”
“È bellissima,” rispondo, e già sento una crepa nella mia voce.
C’è più sole di prima, ce n’è abbastanza per due città molto più grandi di Cesena.
A Torino in questo stesso istante piove a dirotto e i tombini straripano.
Faccio una ventina di metri e di colpo mi esplode qualcosa nel petto. Il cuore manca un colpo. Non respiro bene.
A dire la verità sto piangendo davanti a tutti. Qualcuno passa in bici, altri camminano con calma. Mi sento soffocare, perché trattengo le lacrime. Alzo gli occhi al cielo, così, se tutto va bene, nessuno vede che sono umidi.
Mica posso spiegare loro quanta bellezza ci sia in un giorno così. Mica posso dire a tutti quanto mi considero fortunato per il dono di un giorno come questo e delle casine e di quei ragazzi che trasformano pezzi di legno informe in dolci opere d’arte, con una naturalezza che fa pensare ai miracoli.
Di colpo ho capito tutto. Spero solo di non dimenticarlo.

www.myspace.com/lecasine

giovedì 6 maggio 2010

Ma quale fuga dei cervelli


"MA QUALE FUGA DEI CERVELLI QUESTA E' LA RIVOLUZIONE DEL NON ESSERCI" from Daniele Ciabattoni on Vimeo.

Questo lo considero l'urlo di un mio fratello, Federico Bonelli, che ha lasciato l'Italia e vive ad Amsterdam. Qualcuno potrebbe pensare che ci sia dentro solo rancore, ma io ci vedo un sacco di amore per l'Italia, per la sua gente, per quello che potremmo essere e non siamo. L'amore deluso è sempre il più romantico.
E questo mio fratello è un romantico davvero. Guardate i suoi occhi, alla fine. Sono gli occhi di uno che odia?
Il video è di Daniele Ciabattoni.

lunedì 3 maggio 2010

Lo zen e l'arte di giocare a flipper

Ricordate il flipper? Parte del divertimento consisteva nel cercare di prevedere la traiettoria della biglia d’acciaio, ma alla fine tanto valeva rinunciarci. Tu guardavi a destra e lei schizzava a sinistra, quando ti aspettavi che venisse giù ecco che prendeva a singhiozzare avanti e indietro in un’eternità di rimbalzi strabici. Ogni volta che toccava un pistone concentrico, un triangolo rimbalzello, una prominenza capezzoluta, un gingillo risonante, nel contatore il punteggio andava su e su e su, verso il paradiso dei veri uomini, i record-men del bar. Le cifre scorrevano e tu davi un senso a tutta quella agitazione, a quell’ansia da prestazione, abbeverando il tuo ego con i suoni di approvazione del flipper. Eri in azione. Sapevi che non sarebbe durata per sempre e che potevi anche sembrare un idiota, ma ehi, il gioco andava avanti.

La vita è veloce, pensi che vada in una direzione, poi rimbalza altrove. Guarda come sfreccia, non fermarla, non avere paura che prenda una piega inaspettata. Sembra un gran casino, ma stai accumulando punti, sempre e comunque.

sabato 24 aprile 2010

Noi non siamo razzisti, siamo merde

Parliamo di Adro (BS) dove 20 famiglie in difficoltà economiche si sono trovate nell’impossibilità di pagare il servizio di mensa scolastica in una scuola elementare. La scuola, con una risoluzione che non esito a definire pedagogicamente corretta, ha disposto il taglio dei viveri ai bambini. I piatti vuoti sono il viatico di un messaggio importante, che si enuclea (boia ladra , che parolone!) nel rispetto delle regole e della disciplina, perché non siamo mica nel paese di Bengodi, qui. Una forma di educazione al rigore, di cui un giorno questi pargoli, quasi tutti extracomunitari, ci saranno grati, se non moriranno d’Italia.
E se muoiono vuol dire che non erano forti abbastanza, e quindi non ci servono.

Storia edificante, se non fosse che un ignoto imprenditore si è intromesso effettuando una donazione di 10.000 euro a favore di queste famiglie di furbacchioni, che invece di pagare la mensa come tutti gli altri, si appellano al welfare, come se questa non fosse l’Italia, ma un paese Europeo.
“Non è giusto” reclamano le madri di Adro, che la mensa, loro, la pagano, mica balle. Da qui a pretendere che il benefattore scucia il malloppo a tutti o nessuno, il passo è breve. E infatti loro lo fanno: un saltino, un "balzello" verso lo sciopero della mensa. Perché agli extracomunitari sì e a noi no? Se fai un regalo a loro, che non sono nemmeno Italiani, lo devi fare anche a noi. Lo esigiamo!

Un altro muro è crollato, ma francamente non mi sorprende più di tanto, basta guardarsi intorno. Quello che mi stupisce è che il dibattito si concentri tutto sulle mamme e nessuno pensi ai bambini. No, che avete capito, non i bambini lasciati a digiuno, chi se ne frega di quegli extracomunitari mignon mangiapane a tradimento?
Io pensavo ai figli della madri che deprecano la generosità, che accusano i poveri di essere furbi, che dicono prima noi e andate a casa vostra.
La mia mente corre a questi piccoli italiani, figli di italiche madri dal grande cuore verminoso. Che, è vero, non sono affatto razziste, come strepitano scandalizzate ai microfoni di Annozero.
Sono peggio.

Pensiamo ai loro bambini. In questo preciso momento, stanno ricevendo a piene mani una solida, ringhiante, omicida educazione familiare che un giorno metteranno in pratica e perpetueranno.
Stanno violentando i loro cuori e noi stiamo a guardare.

mercoledì 21 aprile 2010

Colleghi ravvicinati del terzo tipo

Quando chiude un’azienda e tutti a casa i sensi si accendono come bengala. Anni di routine lavorativa li avevano offuscati e di colpo, ehi, cosa vedo, i miei colleghi. Quasi ex. Ora li vedo meglio. Ora che stiamo per congedarci. Ma come è possibile?
Forse lo so.

Siamo a un mostra, un vernissage. Quadri dappertutto, non so se rendo l’idea. Un sacco di gente si aggira fra le opere con aria intelligente e i muscoli abbastanza tonici da reggere un bicchiere di Spritz. Che noia tutti ‘sti quadri, non ne posso più, ma chi l’ha detto che sono capolavori? A me sembrano le solite croste!
E questo che roba è? Sulla parete l’impronta di un quadro. Qualcuno l’ha portato via. Poteva essere il quadro più bello del mondo. Voglio vederlo! Dove l’avete messo? Lo so, lo so, avevo detto che l’arte moderna mi ha annoiato, ma… dov’è finito quel quadro? Voglio vederlo.
Mi manca già.
Mi sento anche un po’ solo.

Colleghi: per anni insieme, sempre operativi, sempre sul pezzo. E ora che il pezzo si è rotto, scendiamo e, da colleghi, torniamo persone. La metamorfosi è quasi istantanea e lascia senza fiato. In questi ultimi giorni insieme mi pare che ci fissiamo come alieni, proprio perché ci guardiamo come esseri umani.
Prima regola per rinascere: schiattare.
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